Giuseppe Milanese, presidente di OSA e di Confcooperative Sanità, ha fatto il punto sulla riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti sulle pagine del mensile Panorama della Sanità

I poeti certamente proliferano, i santi sembrano rarefarsi, i navigatori si moltiplicano però sul web: intanto l’Italia è incline a caratterizzarsi come un Paese di commissari tecnici. E proprio per la sindrome del «cittì», la generale inclinazione è querula, lamentandosi ora che la squadra non sia stata messa bene in campo, ora che il risultato avrebbe potuto essere diverso. Anche quando si è vinto.

Potrebbe proprio trattarsi del caso della riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, realizzata con la definitiva approvazione alla Camera della Legge “Deleghe al Governo in materia di politiche in favore delle persone anziane”: sulla carta una rivoluzione, poiché ribalta – sovverte – lo status quo ante. Il risultato convince da diversi punti di vista e per ragioni anche molto differenti, eppure soffia nel dibattito tra addetti ai lavori una lamentela latente, una insoddisfazione che, ad oggi, appare ingiustificata e che troverebbe giustificazione soltanto se non fosse realizzata. L’invito è dunque ad una vigile attesa.

A leggere con attenzione (e onestà intellettuale) i tabellini, i dati sono incoraggianti. Innanzitutto, il tema della terza età è stato riconosciuto, poi colto, quindi spostato dagli ultimi posti dei generici proclami di parte ai primi posti delle agende parlamentari e governative. Non è cosa da poco, perché ciò configura, finalmente, una strategia politica, economica, culturale che fin qui era stata la grande assente nella gestione della salute pubblica. Attraverso questo passaggio, che vale un salto di civiltà, l’Italia recupera terreno rispetto agli altri Paesi europei, allineandovisi. E lo fa stabilendo dei punti fermi in qualche modo sovrapponibili alle istanze che la cooperazione sociosanitaria – che per bocca stessa del legislatore è stata coadiuvante nel processo legislativo – ha considerato ineludibili per molti lustri: tra tutte, un coordinamento ed una programmazione unici, una valutazione multidimensionale che contempli anche le esigenze sociali degli assistiti, l’introduzione del continuum assistenziale e di un più efficace protagonismo della domiciliarità, il riconoscimento del ruolo del privato in una logica sussidiaria con il sistema pubblico.

 

Al complesso normativo, oggetto nelle ultime settimane di analisi minuziose che sarebbe ozioso ripetere, non può essere sottaciuto un metadato di importanza capitale: e cioè che contemporaneamente è maturata una prospettiva per così dire di umanità, una visione che, con un linguaggio comune, restituisce rilevanza e dunque dignità ai nostri anziani.

Mi sia permessa una digressione solo apparentemente lontana. Il più lungo studio scientifico della vita umana mai realizzato e tuttora in piedi è un progetto di ricerca avviato nel 1938 (ben 85 anni addietro!) dall’Harvard Medical School e dal Massachussets General Hospital che ha analizzato la vita di oltre 2mila persone e di 3 generazioni. Le risultanze spiazzano: più che i fattori genetici, a incidere sulla qualità dell’esistenza – sul grado di benessere psicofisico – sarebbero le relazioni. Come a dire che amore e amicizia prevalgono sul DNA e favoriscono la longevità. È una informazione cruciale, poiché costituisce una motivazione ulteriore e certamente fondamentale all’azione normativa ed etica avviata dai partiti dell’intero arco costituzionale e dagli ultimi due Governi, inequivocabile segno di una presa di coscienza collettiva. Mi spingo ad affermare che sarà necessario consumare un altro passo, ben descritto dalla scrittrice e intellettuale Lidia Ravera nel recentissimo libro “Age Pride” edito per i tipi Einaudi: non è sufficiente attribuire nuove condizioni di dignità alla vecchiaia, occorrerà aiutarla a riconfigurarsi orgogliosamente, appunto riacquistando l’orgoglio di essere utili ed anzi necessari all’articolazione e ai meccanismi funzionali della società. È in questo crinale che si guadagna in parametri di longevità, nello statuire un nuovo quadro di relazioni amorevoli e premurose che parte dall’assistenza sociosanitaria ma che va ben oltre l’assistenza sociosanitaria, strutturando un autentico patto intergenerazionale che porterà, se finalizzato a dovere, reciproci e durevoli benefici.

Un solo alert, non peregrino né di poco valore, e non per emulare i commissari tecnici più malmostosi: entro il 31 gennaio del prossimo anno dovranno essere incartati adeguati decreti delegati e programmate altrettanto adeguate coperture finanziarie. Altrimenti, la squadra che aveva vinto la partita più epica non rischierebbe di perdere il campionato ma, ahinoi, sprofonderebbe nella retrocessione.

Giuseppe Maria Milanese

Scarica e leggi l’articolo pubblicato su Panorama della Sanità di maggio 2023